Fiducia. Non si insegna, si conquista ogni giorno, lavorando sulle relazioni e offrendo occasioni per dimostrare il valore della collaborazione e condivisione. È un atto di coraggio che ogni buon manager compie nei confronti dei propri collaboratori, del proprio team e per il bene dell’intera organizzazione … purché si tratti di un ambiente che evolve, si trasforma e cresce.
Manager e amministratori troppo spesso, invece, si allontanano dal cambiamento, frenati da ripercussioni troppo complesse da gestire all’interno dell’organizzazione, come ad esempio la rottura di equilibri consolidati che hanno garantito la sopravvivenza dell’azienda, fino ad oggi … sopravvivenza appunto.
Nel 2011, una ricerca americana ha previsto che entro un decennio il 40% delle aziende presenti nella Fortune 500 non esisterà più: grandi giganti schiacciati da un giorno con l’altro da un nuovo tipo di imprese che sanno sfruttare le tecnologie esponenziali e che sono caratterizzate da “un nuovo modo di lavorare”.
Una crescente responsabilizzazione sui risultati è la tendenza che si riscontra sempre più in qualsiasi strategia di organizzazione, oltre ad essere alla base dei principi di smart working. Trasformare però indicazioni in azioni di change management è una sfida, forse la più complessa per un’azienda. Non significa agire solo sulle tecnologie o i processi: interessa soprattutto la cultura organizzativa e il comportamento delle persone, valorizzandone le qualità.
Continuare con una cultura aziendale basata sul controllo non solo non è il miglior modo di collaborare, ma rappresenta anche un serio pericolo per la propria sopravvivenza sul mercato.
Abbandonare questi stili di gestione, verso scelte più motivanti, per favorire:
- Autonomia (non equivalente alla piena indipendenza; è possibile prendere delle decisioni, ma dipendere da altri per fasi successive o precedenti)
- Padronanza (il bisogno di essere bravo e competente nel fare qualcosa di importante per il progetto)
- Significatività (saper di contribuire a qualcosa di più grande – anche all’MTP –conoscere il perché delle cose)
[Fonte: Teoria dell’autodeterminazione, Daniel Pink]
Dimentichiamoci le gerarchie. Le grandi organizzazioni sono aziende dove c’è autonomia. ( A. Ruscica) Condividi il Tweet
Una persona, resa responsabile di ciò che fa, si sente “proprietario del proprio lavoro”: opera con maggior libertà nella gestione delle attività, ottiene riferimenti e linee guida da parte dell’owner del progetto ed è parte di un team eterogeneo che collabora verso chiari obiettivi da raggiungere.
Ma come esser certi che i risultati e il lavoro di ogni persona, e quindi dell’intera organizzazione, siano allineati ai target aziendali?
È tipico creare dashboarding top-down, con KPI di performance che valutano macro variabili di produttività e redditività. Questa è sicuramente una necessità e la base della gestione aziendale. Ma come far percepire ad ogni persona, in qualunque punto della struttura organizzativa, le lunghe catene di causa-effetto che si generano nella conduzione dei progetti? E come far capire ad ogni collaboratore se stia facendo bene il proprio lavoro?
I sistemi di dashboarding hanno il limite di essere troppo alti e non sono più adatti a misurare i risultati; inoltre, questi top indicator sono spesso omnicomprensivi e definiti a inizio anno. La realtà (e vale anche per me e per le aziende del Gruppo Altea Federation che presiedo) è che poi spesso occorre ripensare le nostre azioni, programmi, priorità, organizzazioni, offerte di servizio, etc … per indirizzare al meglio le attività durante l’anno.
Partendo da questa riflessione, ancora una volta, ho osservato le best practice e sempre la classifica Fortune 500 mi ha fornito uno spunto da cui partire:
- l’80% di queste aziende utilizza il sistema di OKR (Objectives and Key Results) per la misurazione dei risultati
- il restante 20% lo sta implementando
La storia degli OKR nasce con Andrew Grove, primo dipendente di Intel, ne diventò Presidente nel 1979 e CEO nel 1987. Grove è stato un leader visionario e ha contribuito a disegnare il futuro delle metodologie di management, parlando per la prima volta di OKR nel 1983 (nel suo libro High Output Management).
Grove sostiene che un buon sistema di misurazione dei risultati deve poter rispondere a queste domande:
- Dove voglio arrivare? (Objectives)
- Come saprò se ci sto arrivando? (Key Results)
Nell’apparente semplicità di questo modello, personalmente ho trovato un approccio molto attuale al monitoraggio delle performance: trasforma tutta la variabilità delle lunghe catene di causa-effetto inconcretezza di risultati e invita a riflettere sugli impatti generati da ogni personaper il conseguimento delle strategie di business dell’azienda.